Attività secondarie e videogaming, vantaggio o zavorra?

Il mondo del videogaming, sempre più complesso e variegato, è in continua espansione. Non solo raggiunge ormai platee numerosissime, ma anche i suoi prodotti sono contraddistinti da un grado di vastità senza precedenti, mettendo in scena esperienze videoludiche che puntano a fornire sempre più ore di intrattenimento. Effettivamente quello delle ore di gioco è oggi […]

Il mondo del videogaming, sempre più complesso e variegato, è in continua espansione. Non solo raggiunge ormai platee numerosissime, ma anche i suoi prodotti sono contraddistinti da un grado di vastità senza precedenti, mettendo in scena esperienze videoludiche che puntano a fornire sempre più ore di intrattenimento. Effettivamente quello delle ore di gioco è oggi un parametro costantemente preso in considerazione nel giudicare un prodotto videoludico, in un rapporto in genere direttamente proporzionale fra durata e qualità del titolo. Ma è sempre così?

Sebbene sia difficilmente contestabile che un titolo più lungo sia in grado di dare più soddisfazione a un videogiocatore, a influire sull’esperienza di gioco è più precisamente come tale lunghezza venga raggiunta: spesso, a tal fine, vengono inserite attività secondarie. Si tratta di un’esigenza sorta proprio in risposta alla necessità di arricchire i titoli tanto come durata che come varietà. Le attività opzionali infatti vengono spesso utilizzate per spezzare la storia, fornendo una pausa dalla narrazione della quale c’è talvolta bisogno, e contemporaneamente rendono più vitale la mappa di gioco, dando la sensazione di un mondo vivo a prescindere da dove sia rivolta l’attenzione del videogiocatore.

Nella pratica, tuttavia, capita spesso che l’inserimento di tali attività ottenga riscontri discordanti: spaziando tra chi le apprezza e chi per principio le evita, le attività secondarie rappresentano più un punto di forza o una debolezza di un videogioco?

Si può considerare un’attività secondaria delle più classiche come un gioco di carte, magari uno protagonista in un’infinità di titoli come il poker, e si può prendere un videogame che lo preveda come Far Cry 3. Nel titolo Ubisoft ogni insediamento ha il suo bar dove è possibile fare una partita, e addirittura due punti centrali della trama avvengono durante una partita di poker; eppure si tratta di un’attività nella quale ben pochi videogiocatori si sono trattenuti. Non basta infatti avere familiarità con il valore delle mani e in generale delle regole per cimentarsi in un’attività scarsamente contestualizzata, ed è esattamente questo il caso; viceversa, tutto cambia dove tale contesto venga invece fornito. Rimanendo al poker, basti pensare a un qualsiasi titolo western: in questi casi i tavoli sono ben più frequentati, in quanto richiamano e contestualizzano quanto presente nell’immaginario collettivo. Se è impossibile pensare a un saloon senza il suo tavolo da poker lo stesso vale per la sua versione videoludica, e in tal senso rappresenta un’attività secondaria molto più apprezzata proprio perché contestualizzata.

Sempre a proposito di contestualizzazione si può considerare il Gwent. Gioco di carte a tema fantasy introdotto in The Witcher 3, appartenente a un mondo giunto anche tra i boardgame, è stato a tal punto apprezzato che molti videogiocatori hanno speso ore di gioco solo nello sfidarvi personaggi non giocanti, e lo stesso è diventato protagonista in numerosi titoli stand alone: anche in questo caso si tratta di un’attività secondaria molto ben contestualizzata, oltre che ben studiata di per sé stessa.

Proprio il fatto dell’essere ben studiate rappresenta il secondo aspetto critico per molte attività opzionali, che spesso restituiscono sensazioni di una scarsa cura. In molti titoli open world, per esempio, vengono inserite missioni generate casualmente a cadenza giornaliera, utili per chi volesse ottenere valuta di gioco o premi simili: un modo come un altro perché il videogiocatore abbia interesse a tornare al titolo. Emerge però ben presto come tali missioni siano di qualità quantomeno discutibile, concretizzandosi in attività banali e poco interessanti e, spesso, in stridente contrasto con il tenore più curato del titolo. Ottimo esempio viene dai recenti Assassin’s Creed, dove la scelta di optare per mappe enormi ha reso necessario l’inserimento di attività secondarie molto poco ispirate rispetto al livello generale del gameplay. All’estremo opposto, invece, si può fare l’esempio della classica caccia ai collezionabili, un’attività sulla carta decisamente tediosa ma che, se ben pensata, può risultare una gradita aggiunta. È il caso di Marvel’s Spider-Man, recentemente arrivato su PC dopo quattro anni da esclusiva Sony e nel quale, sparsi per Manhattan, si trovano decine di zainetti: perché mai disturbarsi a cercarli? Se però si considera che ognuno di essi contiene un cimelio legato all’Uomo Ragno, il discorso cambia. Tra riferimenti fumettistici, cinematografici e a precedenti videogiochi la caccia al collezionabile diventa una sorta di gioco nel gioco, nel quale riconoscere i riferimenti inseriti dagli sviluppatori rappresenta la ricompensa per il videogiocatore.

Riassumendo, che giudizio dare delle attività secondarie nel videogaming? Dipende. A volte ispirate e perfino necessarie, altre volte svilenti e inopportune, ne deriva che la risposta può essere data solo di volta in volta, e sarà basata sulla cura in esse profusa in fase di progettazione e sviluppo. Una non risposta, forse, ma l’unica in grado di essere data su una questione tanto variabile come questa.


I commenti sono chiusi.